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2008/09/03

La prospettiva come forma simbolica

Fonte: http://62.77.55.137/site/Scuola/Zoom/prospettiva/mocci.htm La rappresentazione dello spazio secondo Panofsky di Laura Mocci* Nel saggio La prospettiva come forma simbolica, Erwin Panofsky dimostra come ogni epoca culturale abbia sviluppato un proprio modo di rappresentare lo spazio, che può essere inteso come la ‘forma simbolica’ di quella cultura.Partendo dalla definizione düreriana di “perspectiva (ovvero) vedere attraverso”, l’intero quadro si trasforma in una finestra, attraverso la quale noi vediamo. Questo è uno spazio costruito tenendo conto dell’impressione immediata o di una costruzione geometrica più o meno corretta. Nel caso della prospettiva centrale, l’idea della sezione della piramide visiva con un piano perpendicolare al suo asse rende adeguatamente la nostra immagine: si costruisce così uno spazio razionale, infinito, costante e omogeneo. In questo tipo di costruzione i pieni e i vuoti vengono percepiti come aventi lo stesso ‘peso’, la stessa fisicità, come una sorta di unicum continuum. E i vari elementi raffigurati sono armonicamente sistemati nello spazio. Una struttura di questo genere, di tipo matematico, è antinomica rispetto alla percezione dello spazio che hanno i due occhi, in continuo movimento, sulle cui retine, concave e non piane, vengono proiettate le immagini. La costruzione prospettica piana è legata al sentire lo spazio, e al rappresentarlo, in un modo particolare, tra i tanti possibili. Il nostro rifarci continuamente a essa è un’abitudine, un condizionamento. La prospettiva, in tutte le sue forme progressivamente definite nei secoli, non è determinante per stabilire il valore artistico; tuttavia costituisce un importante elemento stilistico dell’opera stessa – come afferma Ernst Cassirer –, è una di quelle forme simboliche attraverso cui le singole culture, le singole epoche rendono visibile la loro concezione spaziale. Sorge spontanea la domanda su quale prospettiva sia stata usata in un determinato periodo e nella cultura che lo ha caratterizzato.Nell’iconografia del periodo greco classico, per esempio, i singoli elementi tridimensionali vengono fusi in gruppi e qualora debbano essere posti in relazione tra loro, il problema è risolto prevalentemente con la giustapposizione. Gruppi di figure, perfettamente disegnate, vengono disposte l’una accanto all’altra, l’una sopra l’altra. Pittore dei Niobidi, cratere, seconda metà del V sec. Museo del Louvre, Parigi Lo spazio è ciò che resta, ciò che non viene occupato dai corpi. La cancellazione di quei gruppi, di quelle figure, porterebbe all’annullamento dello spazio: il piano cesserebbe di essere ‘finestra’ per tornare tavola, muro, ceramica. Anche quando si rappresentano paesaggi o interni architettonici, in ambito ellenistico e romano, il mondo raffigurato rimane uno spazio di aggregati, in cui il rapporto tra gli intervalli di profondità, tra le ortogonali e tra le diverse grandezze non è regolato da un sistema unificato. Questo spiega perché “il mondo dell’arte antica, fintanto che essa rinuncia a riprodurre lo spazio tra i corpi, risulta più saldo e armonico di quello moderno, mentre appena l’arte antica introduce nella raffigurazione anche lo spazio (e quindi specialmente nella pittura di paesaggio) questo spazio diventa irreale, contraddittorio, trasognato e chimerico” (Panofsky p. 52). La prospettiva antica è espressione di una data percezione spaziale, percezione che trova fondamento in ambito filosofico. Nessuna teoria filosofica antica ha mai definito lo spazio con un sistema di relazioni tra altezza, larghezza e profondità. Nell’antichità il mondo è percepito come qualcosa di discontinuo, dove le proprietà esperibili dello spazio (pieni e vuoti, corpi e non corpi) non sono ancora pensate come figli di un’unica sostanza estesa.L’avvento di nuove filosofie e la diffusione del neo platonismo pagano e cristiano, con la metafisica della luce, offrono l’occasione di recuperare ciò che prima non si era considerato. Con la fine dell’arte antica e con l’alto medioevo assistiamo alla distruzione di ciò che era stato raggiunto nella raffigurazione di una realtà percepita come discontinua. I paesaggi, gli interni chiusi, si disgregano per trasformarsi in forme che si rifanno a un piano, le figure si stagliano su fondi d’oro o neutri senza considerare le precedenze logico-compositive. E in questo disgregarsi l’unico appiglio rimane la linea, unica capace di fermare gli elementi in uno spazio ridotto alla bidimensionalità, in cui colore e oro (mosaico e pittura), luci e ombre (nei rilievi scultorei) offrono una nuova unità luministica. “Lo spazio non è altro che la luce più sottile”, scriveva Proclo e la luce diviene ora il comune denominatore. Lo spazio è divenuto un fluido omogeneo. Altare del Duca Ratchis, Cividale del FriuliMa, se al mondo bizantino si deve riconoscere l’introduzione della disorganizzazione spaziale – luci e ombre si irrigidiscono pur senza diventare contorni; gli elementi prospettici, come paesaggi o architetture, non delimitano lo spazio ma vi alludono – è con l’arte romanica, verso la metà del XII secolo, che avviene il reale distacco dall’antichità classica. La linea è solo linea, lo strumento di delimitazione di superfici che vogliono essere solo superfici, senza nessuna allusione a una spazialità immaginata.Bonanno, Porta di S. Ranieri, Battesimo di Cristo.Immagine da Romanini, Andaloro, Cadei, L’arte medievale in Italia, Firenze, 1988 Nella pittura romanica, con una rinuncia apparente a qualsiasi forma di illusione spaziale, corpi e spazi hanno superfici omogenee. E questa omogeneità è l’elemento di novità che li legherà indissolubilmente, senza al contempo impedire una nuova ricerca della tridimensionalità. È la scultura romanica il luogo in cui ciò è più evidente: la figura in rilievo non è davanti o sopra qualcosa, ma ne fa parte (come è evidente nelle ‘metope’ del Duomo di Modena, così definite in quanto richiamano nella resa architettonica dei volumi la scultura greca arcaica). La plastica architettonica romanica è parte integrante dell’edificio a cui appartiene ed è diretta espressione della massa stessa: il leone stiloforo è base della colonna, la statua del portale è colonna di sostegno, il rilievo è metopa. Questi elementi, se decontestualizzati, non sono percepibili come elementi autonomi, ma come frammenti – a differenza di ciò che accadeva nell’arte antica: un esempio per tutti, il Galata Morente -. Quello che nella pittura romanica era lo stile della superficie pura, in scultura diviene lo stile della massa pura. Gli antipodi, una ‘metopa’ del Duomo di Modena, Museo Lapidario del DuomoNell’arte gotica gli elementi architettonici divenuti scultorei oltre a vivere in relazione al tutto, vengono dotati di uno spazio proprio che li connette all’edificio. Questo spazio è limitato, è un palcoscenico, che però ha in sé la potenzialità di adattarsi ai bisogni della raffigurazione, ha in nuce un’estensione illimitata, infinita, perché i corpi e gli spazi liberi sono percepiti come elementi espressivi “di un’unità omogenea e inscindibile” (Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, 1961, p. 60).Sul piano filosofico, lo spazio aristotelico viene reinterpretato dalla filosofia scolastica, postulando che, al di là della finitezza del reale – cosmo empirico – vi è un empireo infinito – l’infinità dell’esistenza e dell’azione divina –. È ancora lontano il momento in cui il concetto di infinito passerà dal divino al naturale, ma è un primo e importantissimo passo che trova riscontro nelle opere di Duccio e di Giotto. Nella loro arte si fondono l’esperienza plastica gotica e le forme architettoniche e paesistiche della tradizione classica, mantenute vive nell’arte bizantina. Da tale sintesi, nasce il concepire lo spazio come qualcosa di cavo, di presente, indipendentemente dagli oggetti che vi vengono posti dentro. Il dipinto torna a essere finestra, una superficie ‘attraverso’ la quale guardare in uno spazio aperto, ma a differenza di quello che avveniva nell’antichità, lo spazio ora appare unitario. Nell’Ultima cena di Duccio, la spazialità è ancora limitata, contraddittoria e parziale – le linee di profondità della parte centrale del soffitto convergono in un generico punto di fuga, diverso da quelli delle zone adiacenti –, tuttavia queste sue premesse sono alla base dello sviluppo successivo. Duccio di Buoninsegna, La Cena, Siena, Museo dell’Opera del Duomo (1301-1308).Immagine da Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, 1984.Gli artisti più conservatori cercheranno di rendere l’unità spaziale riproponendo l’asse di fuga e la profondità con oggetti in scorcio, resi con segmenti paralleli; gli altri, gli innovatori, lavoreranno sul punto di fuga unico, per arrivare, con piena consapevolezza matematica, alla prima apparente prospettiva centrale nel 1344, nell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti. Qui tutte le ortogonali sono orientate verso un unico punto di fuga e l’artista non raffigura più una ‘scatola’ prospettica, ma la porzione di uno spazio che continua a sinistra e a destra. Il pavimento è il piano su cui poggiano le due figure, e le mattonelle a scacchiera sono la ‘misura’. Lorenzetti realizza uno spazio sistematico di cui però non conosce ancora tutte le regole. Egli infatti non può mostrare il punto di fuga – il punto all’infinito – che nasconde dietro la colonnina centrale, e non rende le ortogonali laterali, che copre con le masse delle due figure. Lo spazio centralizzato di Lorenzetti è ancora ‘casuale’ il pittore non ha il sostegno teorico geometrico: sono le masse delle figure a dare certezza allo spazio.Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, Siena, Accademia (1344).Immagine da Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, 1984Per tutto il XIV secolo in Europa si cercherà di trovare una soluzione: nel Nord per via empirica; nel Sud ricorrendo alla matematica. Saranno gli architetti, forse Brunelleschi, a dare il metodo per determinare gli intervalli a cui porre le trasversali in una prospettiva centrale. Con Leon Battista Alberti il dato verrà codificato riconoscendo al quadro il valore di intersezione piana della piramide visiva e sarà quindi la piramide visiva stessa a determinare gli intervalli. L’infinito in atto, che gli scolastici riconoscevano solo all’azione divina, è ormai nel Rinascimento attribuzione anche della natura. Un passaggio, questo, da alcuni letto come frattura, che apre alla possibilità di rappresentazione dello spazio infinito sulla base di leggi universali. Leggi che, in quanto tali, sono matematiche.La costruzione prospettica del ‘quadrato di base’ di Leon Battista Alberti.Immagine e didascalia da Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, 1984La razionalizzazione della realtà percepita e rappresentata può dare all’uomo un senso di potenza, di dominio. Questo indurrà, nelle varie epoche, a porsi il quesito se debba essere il dipinto a seguire il punto di vista dell’osservatore o se debba essere l’osservatore a cercare la struttura prospettica nel dipinto – soggettivismo o oggettivismo.La ‘perspectiva’ rimarrà comunque un ordine dell’immagine visiva, e sarà proprio il rapporto con il visibile a non ammettere, in questo tipo di costruzione, il visionario. Ciò che è soprannaturale, per essere raffigurato, deve essere riassorbito dal naturale: quasi a dire che nella concezione prospettica dello spazio il sovrannaturale diviene un contenuto della conoscenza umana. Questo tipo di concezione prospettica dello spazio, nell’evolversi dell’arte figurativa, si impone due volte “la prima volta come segno di una fine, quando venne meno l’antica teocrazia, la seconda volta come segno di un inizio, quando sorse la moderna antropocrazia” (Panofsky p. 77).*Storica dell’arte, ha curato la schedatura di opere d’arte per la Sovrintendenza ai Beni artistici e storici di Roma e per la Regione Lazio; attualmente collabora con l’Istituto Nazionale per la Grafica del Ministero dei Beni culturali e insegna presso le scuole serali del Comune di Roma.Pubblicato il 26/1/2007

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